Le conclusioni di uno studio statunitense: le donne maggiormente esposte sono quelle che vivono nelle aree rurali e consumano bevande a base di caffeina, ma nelle urine del 93% del campione esaminato ci sono tracce rilevabili dell’erbicida più utilizzato al mondo
di Simonetta Lombardo
“Alti livelli di glifosato nelle urine sono significativamente correlati a una minore durata della gravidanza”. È la conclusione di una ricerca condotta negli Stati Uniti su 71 donne incinte: i dati indicano che in nove gestanti su dieci si sono trovate tracce rilevabili di glifosato nelle urine e che la quantità di diserbante influisce sui tempi della nascita, anticipandoli.Lo studio, condotto da un team di ricercatori dell’Indiana University e dell’Università di San Francisco e pubblicato sull’accreditata rivista Environmental Health, è servito a colmare un buco nella ricerca: “Nonostante l’evidenza di potenziale genotossicità e attività teratogena del glifosato negli studi sugli animali, i suoi effetti sulla gravidanza umana e sullo sviluppo fetale non sono stati studiati”, si legge. “Una revisione sistematica condotta nel 2016 ha trovato solo dieci studi che hanno testato l’associazione tra la misura indiretta dell’esposizione al e gli esiti avversi della gravidanza”. Sebbene alcune di queste ricerche abbiano suggerito un’associazione significativa tra esposizione perinatale a glifosato e vari problemi per il feto e per il bambino, era emersa la necessità di altre indagini: “Si prevede che il rischio di esposizione sia elevato a causa della prevalenza di residui glifosato in colture geneticamente modificate e nell’acqua potabile contaminata; pertanto, sono necessarie ulteriori indagini”. Di qui la decisione di far partire lo studio su 71 gestanti: il risultato è che nel 93% dei casi è stata trovata traccia di glifosato nelle urine. Questo il quadro di partenza: poche madri hanno fumato (16,9%), o bevuto alcol (4,2%), o usato farmaci (1,4%) durante la gravidanza. Quasi metà aveva una laurea (47,9%), la maggior parte un reddito familiare di 50.000 dollari o più all’anno (69%), l’80% viveva in aree urbane o suburbane, l’87,3% aveva assunto discrete quantità di caffè.E proprio la caffeina e l’area di residenza sembrano essere le due variabili significativamente associate con la maggiore presenza di glifosato nelle urine. A risultare maggiormente contaminate infatti sono state le donne che vivono in aree rurali e bevono mediamente più di 700 centilitri di caffè e bevande con caffeina al giorno.Visto che in nessun campione di acqua potabile della zona in cui si è svolto lo studio è risultata una presenza di glifosato, i ricercatori concludono che “è improbabile che la fonte di esposizione fosse l’acqua potabile”. Dunque le cause suggerite per la presenza di glifosato nel corpo della madre appaiono legate all’esposizione al momento della diffusione dell’erbicida sui campi e all’alimentazione: “Studi precedenti hanno suggerito che la probabile fonte primaria di esposizione al glifosato fosse la dieta. Ad esempio, la banca dati dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) elenca soia, mais, orzo, lenticchie, semi di lino, semi di senape, avena, sorgo, grano, chicchi di caffè, tè, radice di barbabietola e funghi come colture con residui di glifosato”.Anche da un recente studio tedesco, sempre citato dalla ricerca americana, è risultato che “le persone che avevano scelto una dieta convenzionale avevano livelli di glifosato nelle urine significativamente più alti rispetto a quelle che avevano optato per una dieta a base di cibo bio”.Il glifosato è balzato all’attenzione dell’opinione pubblica quando, due anni fa, è stato segnalato come “probabile cancerogeno” dallo IARC, l’Istituto internazionale per la ricerca sul cancro. ‘Assolto’ dall’EFSA (l’Autorità europea per la sicurezza alimentare), l’erbicida più utilizzato al mondo è stato al centro di un’approfondita inchiesta giornalistica che, partendo dai cosiddetti Monsanto papers (i documenti resi noti per ordine della magistratura americana), ha dimostrato la stretta relazione tra una parte del mondo della ricerca e la multinazionale che produce il glifosato. L’Unione Europea, pur avendo con una decisione contrastata prorogato alla fine del 2017 la licenza di utilizzazione dell’erbicida per altri 5 anni (contro i 15 anni che rappresentano la normale durata di un’autorizzazione di questo genere di sostanze), ha dato vita a una Commissione d’inchiesta dell’Europarlamento sui metodi di valutazione degli studi su cui si basano le valutazioni delle agenzie europee.La comunità scientifica sta quindi tentando di colmare con ricerche specifiche la sostanziale mancanza di informazioni sull’erbicida più utilizzato a livello mondiale. Quello dell’Università dell’Indiana è di particolare importanza per una zona come il Midwest, dove il diserbante è ampiamente utilizzato nelle coltivazioni di mais e soia ogm, modificate proprio per essere resistenti al Roundup, ovvero al glifosato. “Ricerche come questa confermano se ce ne fosse bisogno la necessità di applicare il principio di precauzione, uno dei fondamenti delle politiche europee da decenni a questa parte”, sostiene Maria Grazia Mammuccini, portavoce della Coalizione italiana #StopGlifosato che riunisce oltre 50 sigle di associazioni ed enti. “Con la fine della legislatura, il piano italiano Glifosato zero è rimasto al palo. Oltre a seguire l’evoluzione della vicenda a livello europeo, appena ci saranno gli interlocutori istituzionali chiederemo che siamo cancellati i contributi pubblici alle pratiche agricole che fanno uso di glifosato: oltre all’agricoltura convenzionale, l’agricoltura integrata e quella conservativa, classificate addirittura come misure a favore dell’ambiente e del clima”.