“Gli Pfas vengono utilizzati come additivi nei pesticidi”, spiega Vincenzo Cordiano, oncologo e presidente dell’Isde Veneto. “In particolare due appartenenti a questa famiglia di composti svolgono un ruolo particolare in questo campo: Pfos e Pfoa. Sono impiegati nei Paesi tropicali per combattere le termiti e altri insetti resistenti a molti pesticidi”
di Antonio Cianciullo
Gli Pfas sono una sigla che ha acquisito improvvisa notorietà. E’ una famiglia larga, formata da migliaia di sostanze: le accomuna il fatto di produrre un ampio range di effetti indesiderati quando entrano in contatto con il nostro corpo. E questo contatto, purtroppo, è frequente perché la contaminazione riguarda le acque. Se ne parla soprattutto in Veneto, dove si concentra una parte della produzione industriale che li utilizza e dove i monitoraggi di controllo sono più attenti e sistematici. E se ne parla collegando questo inquinamento ad alcune categorie di prodotti che adoperano gli Pfas per ottenere una maggiore impermeabilità: dalle giacche a vento alle padelle.
Ma c’è un altro uso degli Pfas di cui si parla meno: i pesticidi. “Gli Pfas vengono utilizzati come additivi nei pesticidi”, spiega Vincenzo Cordiano, oncologo e presidente dell’Isde Veneto. “In particolare due appartenenti a questa famiglia di composti svolgono un ruolo particolare in questo campo: Pfos e Pfoa. Sono impiegati nei Paesi tropicali per combattere le termiti e altri insetti resistenti a molti pesticidi”.
E l’impatto ambientale e sanitario di queste due sostanze è considerato accettabile?
“Negli Stati Uniti e in Europa Pfos e Pfoa sono vietati da vari anni: non si possono più utilizzare e produrre, ma si possono importare con deroghe nei casi in cui non ci sono alternative, ad esempio per le tute per gli astronauti e i fluidi elettronici”.
Gli Pfas nel loro complesso sono molto diffusi?
“Certamente. Si trovano nei contenitori per alimenti in cui bisogna evitare l’assorbimento di olio: dalle patatine alla frutta secca. E poi ce li ritroviamo in molti vestiti, come ha dimostrato la campagna di Greenpeace Detox a cui alcuni grandi marchi hanno aderito cominciando a modificare i sistemi produttivi”.
Qual è l’impatto ambientale?
“Pesante. Sono molecole difficili da distruggere, resistono per decenni: è possibile liberarsene sono bruciandole a temperature elevate. Gli Pfas penetrano nel terreno e vengono assorbiti dalle piante e così ce li possiamo ritrovare negli alimenti. In Veneto ad esempio ci sono stati casi di contaminazione di galline ruspanti che utilizzavano l’acqua di pozzi privati: Pfoa e Pfos sono stati ritrovati in notevoli quantità nelle loro uova e nel loro fegato”.
E l’impatto sanitario?
“Sono interferenti endocrini e durante la gravidanza passano attraverso la placenta. Quindi vengono trasmessi dalla madre al feto e interferiscono con la funzione della tiroide: possono alterare il peso e lo sviluppo del neonato; nella popolazione contaminata in Veneto sono stati osservati casi di nascite di bambini che pesavano meno di un chilo. Altri effetti sono l’aumento del rischio diabete e del colesterolo che predispone a malattie cardiovascolari e a ictus. Infine nella popolazione molto esposta aumenta il rischio di cancro al testicolo e ai reni”.
Come si può quantificare la presenza degli Pfas nei pesticidi?
“Non si può quantificare perché in molti casi il principio attivo contenuto nel pesticida è l’1% del prodotto. Il rimanente 99% è composto dai cosiddetti coformulanti per i quali non esiste un obbligo di dichiarazione in etichetta: lì si annidano gli Pfas”.