Il metodo di coltivazione biologico Songhai, un centro di sperimentazione agricola, un modello africano da replicare
di Jandira Moreno
Il mondo dell’industria agricola convenzionale ha visto una grande opportunità negli immensi spazi coltivabili dell’Africa subsahariana e da poco meno di dieci si è prefissato l’obiettivo di produrre in quei luoghi le materie prime per il sostentamento del mercato e della popolazione globale, entrambi in espansione.
Un’opportunità per un continente dove la carestia è spesso la prima causa di mortalità? Non proprio. L’espropriazione della terra a danno dei piccoli coltivatori locali da parte dei grandi coltivatori sta mettendo in crisi l’economia locale di molte comunità africane, come spiegato nel rapporto di Greenpeace “Fostering economic resilience” (qui il rapporto)
E non è solo l’economia a risentirne, la risposta dell’ambiente al metodo intensivo di coltivazione farà aumentare il numero di profughi ambientali in fuga a causa di siccità, desertificazione e mancanza di cibo dato che quello che si produce con metodo intensivo serve al mercato dell’esportazione.
Potrebbe essere il caso della Nigeria, che se fino ad oggi era il primo paese africano per l’esportazione del petrolio (70% del reddito nazionale) d’ora in poi potrebbe scegliere la kassava, o manioca, come la sua nuova gallina dalle uova d’oro. O il suo cavallo di Troia.
L’apparizione della Nigeria nella scena dell’esportazione mondiale di kassava, desta preoccupazione per i danni che un’agricoltura convenzionale intensiva potrebbe causare a un territorio già vessato dai versamenti di petrolio a sud e dalla desertificazione a nord.
Una soluzione ci sarebbe: adottare il metodo di coltivazione biologico Songhai, un centro di sperimentazione agricola, che dal 2002 è presente sul territorio nigeriano ed ha convertito 1.800 ettari di terreno e che porta avanti un progetto agricolo che vede l’agricoltura biologica al centro della battaglia a difesa della dignità e della sovranità alimentare africana.
Il nigeriano Godfrey Nzamujo, padre dominicano, lo ha fondato nel 1985 in Benin, dove sorgeva l’impero Songhai – un fiorente e potente regno africano del XV secolo -, per educare giovani imprenditori locali al metodo agricolo biologico. Solo dopo aver avuto successo il suo modello è stato replicato in 5 stati della Nigeria grazie anche a iniziative governative. Ad oggi sono 15 le regioni africane che hanno adottato il modello Songhai anche grazie all’aiuto del programma per lo sviluppo dell’ONU.
Uno studio di Miguel A. Altieri et al., professore di agroecologia a Berkeley, che ha preso in considerazione 114 casi ha rivelato che la conversione dal metodo convenzionale a quello biologico porta ad accrescere la produttività del terreno del 116%. In un campo convertito al metodo biologico in Kenya si è constatato che la resa del mais è aumentata del 71% e quella dei fagioli del 158%.
Coltivare biologico in Africa non è solo sinonimo di mangiare sano. Significa rendere economicamente indipendenti intere comunità agricole che possono finalmente fare a meno di comprare pesticidi e fertilizzanti per i quali si indebitano perché troppo cari. Significa non dover abbandonare la terra perché non più fertile e spostarsi alla ricerca di nuove terre da sfruttare e da abbandonare di nuovo. Significa far fiorire e far crescere l’economia locale, senza mettere a rischio la salute e l’ambiente circostante.