Una ricerca dell’Università della California confronta i livelli di glifosato nell’organismo umano a distanza di 23 anni. Per scoprire che i residui sono raddoppiati e sono presenti cinque volte di più
di Maria Pia Terrosi
Se negli ultimi 20 anni il consumo mondiale di glifosato è cresciuto di 15 volte, non può stupire che anche i residui di questo erbicida nel nostro organismo siano notevolmente aumentati. E’ quello che emerge da una recente indagine condotta dalla San Diego School of Medicine dell’Università della California – pubblicata sul “Journal of the American Medical Association” – che ha confrontato a distanza di 23 anni i livelli di glifosato e di Ampa (metabolita del glifosato) presenti nell’urina di 100 persone (anziani, 60% donne).
Il primo controllo, infatti, risale al 1993: ovvero un anno prima dell’introduzione da parte della Monsanto di coltivazioni geneticamente modificate resistenti al glifosato. Cosa che ha consentito negli anni successivi lo stratosferico incremento nell’uso della sostanza, visto che poteva essere spruzzata anche dopo la semina.
Risultato: nelle urine delle 100 persone analizzate dagli studiosi le quantità di glifosato sono passate da una media di 0,20 microgrammi per litro rilevata nel periodo 1993-1996, a una media di 0,44 microgrammi per litro nel 2014-2016. In pratica i valori sono più che raddoppiati. Mentre il livello medio di Ampa è passato da 0,16 microgrammi per litro nel 1993-1996 a 0,40 microgrammi per litro nel 2014-2016.
Senza dubbio si tratta di valori lontani dai limiti fissati sia dall’Agenzia per la protezione ambientale Usa (1,75 milligrammi per chilo di peso corporeo) e anche da quelli – più severi – stabiliti dall’Efsa, l’Autorità europea per la sicurezza alimentare (0,3 milligrammi per chilo di peso corporeo).
Ma a preoccupare è anche il fatto che a distanza di 20 anni il numero delle persone contaminate da glifosato è cresciuto di 5 volte: nel 1996 il glifosato era stato rilevato nel 12% dei campioni analizzati, mentre nel 2016 è risultato presente nel 70%.
Lo studio conferma che il problema glifosato è globale e non riguarda solo gli agricoltori o chi vive in campagna. Purtroppo la principale porta d’ingresso per il glifosato è rappresentata dal cibo che mangiamo: oggi negli Usa questo erbicida viene utilizzato nella coltivazione di soia e mais, grano e avena. Che diventano farine per la nostra alimentazione o per quella degli animali che alleviamo dei quali ci nutriamo.
In pratica, precisa Paul J. Mills autore dello studio, “la nostra esposizione a questo prodotto chimico è aumentata significativamente nel corso degli anni, ma la maggior parte delle persone non è consapevole del fatto che lo può assorbire attraverso l’alimentazione”.
Se è vero che lo studio si riferisce agli Stati Uniti, con molta probabilità i risultati non sarebbero molto differenti in Europa. Basti pensare all’inchiesta condotta alcuni mesi fa dal mensile Il Salvagente in collaborazione con l’associazione A Sud che ha esaminato le urine di un campione di 14 donne in gravidanza – non residenti in aree agricole – rinvenendo in tutte e 14 residui di glifosato, in quantità variabili da 0,43 nanogrammi per millilitro fino a 3,48 nanogrammi.