Uno studio analizza il problema e offre soluzioni: meno burocrazia, transizione digitale, equità fiscale
La domanda di biologico continua a crescere e a conquistare quote di mercato. Eppure in questo settore che gode di eccellenti prospettive il sistema di certificazione incontra difficoltà. Perché? E’ la domanda a cui prova a dare una risposta uno studio condotto dal Crea (Consiglio nazionale per la ricerca in agricoltura) e da Firab (Fondazione per la Ricerca in Agricoltura Biologica e Biodinamica) sulle motivazioni che hanno indotto alcune aziende del biologico ad abbandonare il sistema di certificazione (in alcune regioni si è addirittura invertita la tendenza alla crescita del numero delle aziende con il marchio bio). L’analisi (“L’uscita delle aziende biologiche dal sistema di certificazione e controllo: cause, prospettive e ruolo delle politiche”) fornisce la dimensione del fenomeno e conclusioni che sollecitano i provvedimenti politico-amministrativi necessari a contrastare il fenomeno.
Mettere mano alle difficoltà del settore
“Un documento utile per ricordarci di mettere mano alle molte difficoltà che il settore bio incontra nella sua crescita”, dice Paolo Carnemolla, presidente di FederBio Servizi e segretario di FederBio. “Per far crescere il movimento bio – prosegue Carnemolla – occorre organizzare al meglio i distretti biologici e la filiera produttiva, il supporto deve essere tecnico e commerciale”. A suo giudizio “è il sistema di certificazione che non funziona. Oggi la burocratizzazione è pesantissima e i controlli inefficaci. Non servono le carte, per semplificare bisogna passare a una transizione digitale, utilizzando la blockchain per certificare la provenienza di un prodotto agroalimentare. Insomma informatizzare il sistema”.
Se si considerano le politiche europee – Green Deal (2019), From Farm to Fork (2020), Strategia Ue sulla biodiversità per il 2030 (2020) – lo sviluppo dell’agricoltura biologica assume grande rilevanza, tanto da rientrare tra gli obiettivi prioritari da perseguire insieme alla riduzione di pesticidi, antimicrobici e fertilizzanti utilizzati in agricoltura e zootecnia, al miglioramento del benessere degli animali e all’inversione della perdita di biodiversità.
Un freno alla diffusione del bio
A ostacolare il conseguimento di tale obiettivo, pur in presenza di una crescita del settore con consumi in espansione, vi è però l’abbandono del sistema di certificazione e controllo da parte di alcune aziende biologiche, fenomeno che in Italia, soprattutto negli ultimi anni, ha frenato la diffusione dell’agricoltura bio specialmente in alcune regioni del Sud, quali Calabria, Sicilia e Sardegna, unitamente al Friuli-Venezia Giulia per il Nord.
“Il biologico è il solo metodo agricolo chiaramente regolato e riconoscibile agli occhi dei consumatori grazie alla certificazione biologica che è stata fondamentale per l’espansione del mercato dando una forte identità al prodotto”, ha scritto su HuffPost Andrea Colombo, segretario Firab. “Ma gli oneri della certificazione e gli eccessi di burocratizzazione, che si sono aggravate negli ultimi anni, hanno creato in alcuni casi un effetto negativo. Soprattutto quando le disposizioni aggiuntive vengono percepite come non giustificate o inutilmente vessatorie. Gli oneri burocratici di certificazione vanno commisurati alla scala aziendale, anche favorendo il ricorso a sistemi collettivi di certificazione: un’adozione più diffusa di tale strumento aiuterebbe le piccole aziende a restare nella ‘riconoscibilità’ del sistema biologico, evitando la fuoriuscita di operatori che spesso mantengono metodi biologici senza però avvalersi della certificazione”.
Decisioni influenzate da vari fattori
Dalla letteratura e dall’indagine sul campo emerge infatti che le decisioni degli agricoltori di interrompere la produzione bio sono influenzate da fattori quali difficoltà economiche, insofferenza verso gli oneri di certificazione (a carico di chi ha scelto di non inquinare), problematiche legate alle tecniche di produzione. Ragioni che incrociano la difficoltà di accedere ai contributi pubblici che per gli agricoltori europei implica l’impegno a sottoscrivere un periodo di certificazione di almeno cinque anni, ritenuto da alcuni troppo lungo e per il quale si invoca una maggiore flessibilità.
In vista del conseguimento del 25% di Superficie agricola utilizzata (Sau) biologica entro il 2030, dunque “sarebbe necessario aumentare la dotazione delle risorse finanziarie e promuovere la conversione delle aziende attivando tutti gli strumenti disponibili per favorirne l’entrata nel sistema di certificazione e controllo accanto agli auspicabili interventi volti a sburocraticizzare il sistema”.
Rafforzare le politiche di sostegno
Oltre a una serie di interventi per favorire la conversione al bio (adesione alla misura agro-climatico-ambientale anche da parte delle grandi aziende miste, maggiorazione del pagamento per foraggere e prati-pascoli in presenza di allevamento aziendale, corsi di formazione, premio per l’inserimento dei giovani), lo studio evidenzia che si dovrebbe rafforzare “le politiche di sostegno che rappresentano per quasi tre aziende su quattro un fattore cruciale nella decisione relativa al mantenere o interrompere l’impegno nel biologico”.
Tra la costellazione di motivazioni per il recesso, lo studio non indica quindi un unico fronte da aggredire per evitare l’abbandono del bio. “La creazione di un quadro politico coerente e affidabile, che nel lungo periodo porti a una maggiore competitività dell’agricoltura biologica con l’agricoltura convenzionale, è in questo contesto una sfida centrale”.