La dottoressa Renata Alleva ha condotto, insieme ad altri studiosi, uno studio sull’esposizione a lungo termine a basse dosi di pesticidi sull’integrità del DNA. I risultati di un monitoraggio effettuato in Val di Non su residenti sani sono stati pubblicati in due riviste scientifiche
di Goffredo Galeazzi
La dottoressa Renata Alleva, specialista in Scienza dell’alimentazione e presidente provinciale ISDE sez. Ascoli Piceno, ha condotto uno studio sull’esposizione a lungo termine a basse dosi di pesticidi sull’integrità del DNA. Le abbiamo chiesto a di riassumerci in modo semplice i risultati di un monitoraggio effettuato in Val di Non su residenti sani che sono stati pubblicati in due riviste scientifiche.
Che cosa significa risiedere vicino ai campi coltivati intensivamente e quali sono le implicazioni sulla salute delle popolazioni non esposte direttamente.
Quando si parla di esposizione a pesticidi, inclusi erbicidi, insetticidi e fungicidi, immediatamente pensiamo ai residui negli alimenti attraverso i quali la maggior parte della popolazione è esposta; in secondo luogo si pensa a chi questa esposizione ce l’ha perché è un agricoltore e quindi costantemente è a contatto con queste sostanze molto tossiche per motivi lavorativi, più raramente invece ci ricordiamo di quella che è l’esposizione più subdola, quella residenziale, di chi, per sua sfortuna, vive a ridosso di aree intensivamente coltivate ed è costretta a respirare suo malgrado queste ondate di fitofarmaci che in base ai periodi dell’anno e tipo di trattamenti sono più intense e irrespirabili.
Cosa accade a queste persone? Possiamo definire indolore questa esposizione, o lascia dei segni, seppur invisibili a una prima analisi, nell’immediato?
Sicuramente lascia un segno, ed è quanto abbiamo voluto verificare con un monitoraggio effettuato su un gruppo di 33 volontari, residenti in Val di Non, che avevano le abitazioni a ridosso dei meleti ad una distanza minima di 20 mt e massima di 100 mt, in tre periodi che abbiamo definito a esposizione nulla, bassa, o alta, in base alla quantità di trattamenti previsti con pesticidi (novembre -giugno 2015). Nessuno dei soggetti arruolati era un agricoltore e nel gruppo erano presenti anche dei bambini. Con un semplice prelievo di sangue e un campione di urine, abbiamo valutato se essere esposti ai pesticidi, creava un danno al DNA, la molecola da cui dipende tutto il destino delle nostre cellule, tanto che un accumulo del danno al DNA è associato sia all’aumento del rischio di patologie tumorali, che neurodegenerative. Normalmente noi siamo dotati di sistemi di riparazione del DNA che ne assicurano l’integrità, che è fondamentale per la salute delle cellule. Poiché però la capacità di detossificarsi può dipendere anche da altri sistemi enzimatici come la paraoxonasi che agisce direttamente su pesticidi, se sono entrati nei nostri corpi, abbiamo valutato anche l’attività di questo enzima, e contemporaneamente abbiamo monitorato nelle urine la presenza di clorpirifos, uno dei pesticidi più discussi, per la sua neurotossicità e attività di interferente endocrino, ma anche più utilizzato al mondo nella frutticultura, e responsabile proprio in Val di Non di aver contaminato le acque di diversi fiumi. Per valutare se i pesticidi dai campi arrivano a ridosso ed entrano nelle case, sono stati posizionati davanti a 3 diverse abitazioni dei rilevatori per monitorare la presenza di pesticidi nell’aria antistante.
Cosa è emerso dallo studio?
Innanzitutto che i pesticidi entrano nelle case, si mescolano alla polvere ed entrano negli aspirapolveri, dove abbiamo trovato ben 13 diversi pesticidi, determinando una esposizione cronica, quella oggi ritenuta più pericolosa, perché i danni possono manifestarsi anche a distanza di molti anni.
Qual è il dato più significativo?
Il dato più importante emerso è che il danno al DNA aumenta in alta esposizione, e la concentrazione di clorpirifos nelle urine è più alta nel momento di massimi trattamenti: da notare che le concentrazioni urinarie di clorpirifos sono proporzionali anche alla distanza delle case dai campi, tanto che la sua concentrazione più elevata è stata trovata nei residenti più vicini ai meleti.
Altro dato da sottolineare è che il gruppo di residenti della Val di Non, confrontati con una popolazione non residente, avevano una ridotta attività di riparazione da parte dei sistemi enzimatici cellulari (DNA repair system). E questo è stato osservato già nel primo prelievo di sangue, effettuato nel periodo in cui non c’erano trattamenti nei meleti, segno che l’esposizione cronica influenza i sistemi di riparazione del DNA. In alta esposizione, l’attività di questi sistemi enzimatici si riduce ulteriormente e diventa ancor meno efficiente, col risultato di un accumulo del danno del DNA. Nei nostri risultati, non abbiamo trovato nessun ruolo della paraoxonasi, ma abbiamo concluso che la causa del danno al DNA fosse dovuto alla lunga e cronica esposizione a cui i residenti sono sottoposti e che quindi col tempo, influenzano e diminuiscono l’efficienza dei sistemi che sono deputati a mantenere integro il DNA.
L’alimentazione e fattori nella dieta possono contribuire a proteggere il nostro DNA?
Un dato positivo che è emerso, da una seconda fase dello studio sempre sugli gli stessi volontari, a cui è che stata integrata la dieta con miele biologico ad alto contenuto di polifenoli, è che questi biocomposti agiscono riportando l’attività enzimatica di riparazione del DNA alla normalità anche in presenza di elevati trattamenti, segno che la dieta, se ricca di sostanze come i polifenoli e esente da contaminanti, può contrastare l’effetto tossico dei pesticidi e di altri contaminanti ambientali. Tuttavia, bisogna riflettere sul fatto che i segni che l’ambiente lascia nei nostri corpi, probabilmente non è visibile immediatamente e con esami di routine, ma visti i sistemi che coinvolge, può tradursi in un rischio a lungo termine, pertanto per principio di precauzione e rispetto della qualità di vita, nessun residente dovrebbe essere esposto a tale inquinamento cosi invasivo.