A distanza di 40 anni dai primi esperimenti in Egitto, in Etiopia 200 coltivatori di cotone passano al bio con minori consumi di acqua, rese superiori del 100% e un prezzo più elevato del 77% rispetto alle coltivazioni tradizionali
di Maria Pia Terrosi
In Etiopia alcune settimane fa 200 piccole aziende agricole che coltivano cotone sono state certificate biologiche. Si tratta di un primo risultato di un progetto partito nel 2013 in collaborazione con Pan Etiopia che ha coinvolto circa 2000 coltivatori attivi nel sud del paese ai quali è stato insegnato come produrre cotone senza utilizzare di pesticidi e ricorrendo a pratiche di gestione integrata per il controllo dei parassiti. Ora 200 di loro hanno ricevuto la certificazione bio, mostrando i primi risultati: le rese sono state superiori del 100% mentre il loro cotone in media è stato venduto a un prezzo superiore del 77% .
L’Etiopia è uno dei paesi africani in cui la coltivazione del cotone si sta confermando tra le più importanti, incoraggiata dalla crescente domanda di fibra da parte delle numerose fabbriche tessili: diverse multinazionali del settore, quali H&M, Primark e Tesco, hanno iniziato a delocalizzare qui i loro stabilimenti produttivi attirate dalla disponibilità di mano d’opera a basso costo (in Etiopia un operaio del settore guadagna 60-70 dollari al mese rispetto ai quasi 500 di uno cinese). Ed anche favorita dalla messa a punto di validi sistemi di irrigazione, per esempio nella valle di Awash. Visto che il cotone per crescere ha bisogno di grandi quantità di acqua: per produrre una t shirt ne servono circa 2.000 litri.
Non solo il cotone coltivato in maniera convenzionale necessita di parecchia acqua, ma richiede anche un consistente ricorso ai pesticidi: basti dire che seppur sia presente solo sul 2,5% dei terreni agricoli del mondo, complessivamente consuma il 16% dei pesticidi e il 6,8% degli erbicidi. La gestione di tali sostanze chimiche specie per i piccoli agricoltori che vivono nei paesi meno sviluppati spesso avviene in assenza di adeguati equipaggiamenti e con una preparazione scarsa. Quindi ai devastanti impatti ambientali legati all’uso di pesticidi in queste coltivazioni si aggiungono quelli sociali e sanitari legati all’esposizione continuativa pericolosa per la salute (rischio di sviluppare cancro, problemi neurologici, ormonali). A tutto ciò vanno aggiunti gli avvelenamenti acuti, spesso accidentali visto che si tratta di sostanze letali per l’uomo anche in piccolissime quantità.
A ritenere che la coltivazione organica – anche di cotone – possa rappresentare un’alternativa praticabile e conveniente lo aveva già capito molti anni fa il dottor Ibrahim Abouleish. Alla fine degli anni ’70, in Egitto, Abouleish aveva iniziato a coltivare un’area desertica semplicemente utilizzando l’acqua ricavata da un piccolo pozzo e seguendo metodi di coltivazione organici. Ne nacque il progetto Sekem che oggi applica questi metodi in molte coltivazioni (non solo cotone, ma anche frutta, verdura e cereali) su terreni semi desertici del paese, risparmiando più del 20% dell’acqua necessaria, senza perdere produttività ed evitando il ricorso ai pesticidi. Una lezione che piano piano sembra essere assimilata, visto che oggi in Egitto – dicono al Sekem – l’uso di pesticidi è diminuito del 90%.