Mentre l’Ispra e Legambiente ci consegnano un’immagine preoccupante dello stato delle nostre acque, c’è chi propone di combatterne l’inquinamento alzando i limiti di sicurezza previsti per le sostanze chimiche rilevate. Come se cancellando la legge si cancellassero i danni ambientali e sanitari
di Maria Pia Terrosi
Nel 1986 di fronte alla constatazione che nelle falde acquifere italiane scorreva acqua all’atrazina, un diserbante usato in agricoltura altamente tossico per la salute, l’allora ministro della Sanità Donat Cattin decise con un’ordinanza di alzare il limite massimo tollerato di atrazina portandolo a una soglia dieci volte superiore. In questo modo l’acqua tornò potabile “per legge”. Problema risolto.
A distanza di più di 30 anni in questi mesi sembra riaffacciarsi la tentazione di giocare con i numeri piuttosto che risolvere le criticità. Eppure la recente pandemia dovrebbe almeno averci insegnato che i conti si pagano, soprattutto in ambito ambientale.
Proprio del superamento di limiti che creano problemi ai produttori, infatti, si parla nel Dossier 2020 Acque potabili”Sicurezza delle acque a uso potabile” pubblicato alcune settimane fa. Patrocinato dall’associazione Seta- Scienza e tecnologie per l’Agricoltura- il dossier propone di rivedere i limiti di sicurezza previsti dalla legge per le sostanze inquinanti rilevate nelle acque e attualmente fissati a 0,1 µg/L (microgrammi per litro).
Questi limiti sono definiti nel dossier anacronistici e obsoleti, e ci si rammarica del fatto che superare il tetto di esposizione previsto dalla legge generi“ falsi allarmi nella popolazione”. In particolare l’attenzione degli autori si sofferma sui fitofarmaci utilizzati in agricoltura, le cui soglie sono considerate iniquamente basse rendendo “impellente l’adozione di altri e più moderni indicatori”. Insomma l’agricoltura convenzionale usa più pesticidi di quelli che la legge ritiene accettabili per evitare che il danno sanitario superi il limite di guardia? E allora cambiamo la legge.
Geremia Gios: un’iniziativa improvvida
Di parere diverso è Geremia Gios, professore ordinario di Economia agraria presso la Facoltà di Economia dell’Università di Trento ed ex sindaco di Vallarsa, primo Comune italiano ad avere adottato nel 2014 un regolamento che prevede zero pesticidi in agricoltura nel proprio territorio.
“E’ decisamente una iniziativa improvvida e da rispedire al mittente”, commenta Gios. “Penso invece che se si dovesse intervenire sui limiti dei residui di pesticidi rilevati nelle acque bisognerebbe farlo per renderli più severi. Per abbassarli, non certo per alzarli. I limiti sono anacronistici perché troppo elevati, non perché troppo bassi.Oltretutto per molte molecole alla base dei fitofarmaci non sappiamo neppure quali possano essere le reali conseguenze a lungo termine e quindi andrebbe applicata un’ottica prudenziale. Gli effetti di queste sostanze sulla salute non sempre sono immediati. Ci sono ad esempio fenomeni di epigenetica per cui l’esposizione a una molecola provoca danni che si vedono nelle generazioni successive rispetto a quella di chi è stato esposto. Questo perché l’esposizione silenzia alcuni geni e ne attiva altri. E i danni in pratica si manifestano a distanza di 30 anni, nei figli e nipoti”.
Salute delle acque, quello che dicono Ispra e Legambiente
Le preoccupazione sull’effettivo stato di salute delle nostre acque – sia superficiali che profonde – emerge purtroppo dall’ultimo report di Ispra – Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale – che evidenzia una presenza diffusa di pesticidi nelle acque, con un aumento sia delle sostanze trovate che delle aree interessate. Al punto che residui di pesticidi sono stati rinvenuti nel 67,0% dei punti monitorati delle acque superficiali e nel 33,5% di quelle sotterrane. In genere a concentrazioni basse ma – precisa Ispra – gli effetti nocivi delle sostanze si possono manifestare anche a concentrazioni molto basse.
In molti casi invece i limiti sono ampiamente sforati. Concentrazioni superiori ai limiti nel 24% dei punti monitorati delle acque superficiali e nell’8,3% di quelli relativi alle acque sotterranee. Tra le sostanze chimiche che più spesso hanno provocato lo sforamento ci sono il glifosato trovato in quantità superiore alle soglie di legge nel 24,5% delle acque superficiali e l’ampa, un suo metabolita, rintracciato in quasi la metà dei siti analizzati.
Dalla fotografia scattata dall’Ispra emerge un utilizzo sempre più esteso dei pesticidi e fertilizzanti. Non solo. Se dai dati raccolti la contaminazione appare più diffusa nella pianura padano veneta, va precisato che il quadro delineato purtroppo non è completamente rappresentativo visto che per molte aree del Paese (ad esempio la Calabria) le informazioni sono molto limitate, così come è limitato il numero delle sostanze ricercate.
Recentissimo poi, il dossier di Legambiente “H2O – la chimica che inquina l’acqua” che punta il dito sui varie sostanze. Pesticidi e non solo. Secondo Legambiente, che ha lavorato sui dati del registro europeo degli inquinanti E-Prtr (European Pollutant Release and Transfer Register), dal 2007 al 2017 e solo dagli impianti industriali sono finite, secondo le dichiarazioni fornite dalle stesse aziende, 5.622 tonnellate di sostanze chimiche nei corpi idrici.
Acque e agricoltura, occorre cambiare rotta
Stupisce pertanto che in questo contesto si inviti a innalzare i limiti di queste sostanze tossiche proponendo di rivederli alla luce di diversi indicatori di calcolo e motivando tale proposta anche con la necessità di consentire maggiore produttività alla nostra agricoltura, inutilmente penalizzata dalle limitazioni poste dalle normative vigenti.
Ma davvero il problema della nostra agricoltura è la scarsa produttività? “Nello scenario attuale delle società più avanzate,” aggiunge Gios, “non credo che una riduzione della produttività – entro limiti ragionevoli – sarebbe una cosa disastrosa. Spingere eccessivamente la produttività vuol dire dover controllare fortemente l’ambiente esterno, avere a che fare non solo con residui tossici di fitofarmaci ma gestire anche altri impatti ambientali, penso alle emissioni inquinanti e al consumo idrico elevato. Oggi con una produttività più bassa ci sarebbe ugualmente cibo per tutti e i costi non sarebbero poi così elevati. Forse in passato i modelli di produzione spinti potevano avere un senso, ma sicuramente non lo hanno più oggi. Basti pensare ai numeri dello spreco alimentare. C’è poi un altro discorso legato alla qualità del cibo e alle sue caratteristiche nutrizionali. Spingere troppo sul pedale della produttività vuol dire avere prodotti alimentari di qualità inferiore. Nessuno può pensare di ottenere lo stesso vino se da un ettaro produco 400 quintali di uva o 80.”
Solo cambiando traiettoria e orientandoci verso un modello più equilibrato, che preveda un impiego minore di chimica di sintesi, risolveremo il problema. Le scorciatoie che ignorano il rischio di impatti sociali, ambientali, sanitari ed economici – come la pandemia ha dolorosamente dimostrato – sono pericolose.
“Il livello di inquinamento delle acque è ormai tale che per forza prima o poi qualcuno si farà alcune domande e vorrà affrontare la situazione.” ammonisce Gios. “Il fatto è che se si valutano i costi da sostenere per disinquinare le nostre acque riportandole entro i limiti di legge ci si accorge che si tratta di cifre stratosferiche. Ecco allora la grande idea: alziamo i limiti ed eliminiamo il problema. Come se cancellando la legge si cancellassero i danni ambientali e sanitari”, conclude Gios.