Mettere a coltura le terre a tutela della biodiversità? Almeno si usi il metodo biologico
Di Paolo Natoli
“C’è l’urgenza immediata di aumentare in Italia la produzione di mais, grano e girasole per compensare la contrazione dell’offerta provocata dall’invasione dell’Ucraina? D’accordo. Vogliamo quindi mettere a coltura, con deroga temporanea, le terre di interesse ecologico destinate alla tutela della biodiversità? Ci sono alternative migliori, ma immaginiamo di accettare questa proposta. Come vogliamo coltivarle queste terre? Innaffiandole con pesticidi e concimi di sintesi che in questo momento hanno costi insostenibili per gli agricoltori e che contamineranno il suolo per decenni, sterilizzandolo dal punto di vista della biodiversità? O vogliamo dedicarle all’agricoltura biologica in modo da preservare il loro valore naturale e al tempo stesso aumentare la produzione di cibo?” Maria Grazia Mammuccini, presidente di FederBio, è preoccupata per i possibili esiti del dibattito legato all’esplodere delle tensioni alle porte dell’Europa.
L’uso delle terre destinate alla protezione della biodiversità è senz’altro un tema caldo. Ma c’è anche una domanda preliminare. Si può ridurre il problema a una minore disponibilità di alcune derrate alimentari? O ci troviamo di fronte a un problema agricolo più vasto?
“E’ senz’altro un problema più vasto. Stiamo pagando una somma di errori che derivano da un modello agricolo sbagliato: il modello dell’agricoltura industriale che era andato in crisi ben prima della guerra in Ucraina. E che ha creato un elenco lunghissimo di criticità: il consumo di suolo, il crollo della biodiversità, l’aumento delle emissioni serra, l’inquinamento delle falde idriche, la chiusura progressiva delle aziende provocata da un sistema di prezzi iniquo, l’abbandono delle terre. La crisi attuale non investe solo la quantità della produzione ma anche l’impennarsi del costo di pesticidi, concimi chimici ed energia che rischia di strangolare le imprese agricole. E’ dunque l’intero modello dell’agricoltura industriale basata sulla forzatura del ciclo di produzione che si è rivelato fallimentare dal punto di vista ambientale, economico, sanitario e sociale”.
Sarebbe dunque logico rispondere all’emergenza che si è creata accelerando le riforme che l’Unione Europea ha impostato con le Strategie Farm to Fork e Biodiversità. Sta succedendo?
“La lettura della crisi è contraddittoria. Da una parte il pacchetto di misure europee sulla sicurezza alimentare approvato dal Parlamento europeo sembra dare una spinta in direzione del Green Deal, sottolineando la necessità di aumentare la resilienza del settore agricolo e puntando ad obiettivi ambiziosi di crescita dei terreni coltivati a biologico che rappresentano punti per noi assolutamente condivisibili. Dall’altra affiora la tentazione di strumentalizzare le difficoltà attuali per fare marcia indietro, per ridare fiato all’agricoltura ad alto impatto ambientale che ha prodotto buona parte dei problemi che si cerca di risolvere”.
Come si manifestano queste tentazioni?
“Una delle decisioni che hanno sollevato più polemiche è il rinvio della nuova normativa europea sui pesticidi. Una decisione veramente assurda. Proprio nel momento in cui il picco di crescita dei prezzi dell’agricoltura convenzionale rischia di portare al fallimento migliaia di imprese agricole vogliamo bloccare le riforme che offrono alternative per risolvere il problema? E’ un paradosso”.
Un altro tema che fa discutere è la richiesta di autosufficienza alimentare, che qualcuno declina a livello nazionale e qualcuno a livello continentale.
“Bisogna intendersi sulle parole. Quelli che più insistono nel proporre questo slogan sono gli stessi che fino a ieri difendevano un modello globalizzato di sistemi agroalimentari in cui si doveva competere abbassando i prezzi sempre di più, aumentando gli input chimici sempre di più, sfruttando il suolo sempre di più. Questo modello è andato in pezzi: è la causa principale dei problemi con cui oggi dobbiamo fare i conti. Gli agricoltori che hanno scelto il modello convenzionale si trovano oggi strangolati dall’aumento dei prezzi di pesticidi e fertilizzanti di sintesi, che sono triplicati. E non possono fare a meno del sostegno chimico perché hanno drogato i campi: per farli tornare in equilibrio ci vogliono anni”.
Cosa si potrebbe fare dunque?
“Parlare di autosufficienza alimentare con concretezza: mettendo assieme questa esigenza con quella di far quadrare i conti economici e ambientali. Ad esempio filiere di prodotti biologici fondate sul principio del giusto prezzo o i distretti biologici sono esempi vincenti di rilocalizzazione. Il biologico è un metodo di coltivazione che guarda contemporaneamente alla salute delle persone e dei campi offrendo agli agricoltori la possibilità di spuntare prezzi che permettono alle aziende di andare avanti. È un metodo che collega con un approccio circolare i sistemi locali di produzione del cibo e i sistemi di consumo”.
Quindi lei è favorevole alle scelte di autosufficienza alimentare?
“Utilizzerei il concetto di sicurezza alimentare, che va applicato con buon senso. Far viaggiare i fagiolini da un continente all’altro è una follia. Ma ci sono prodotti importanti che caratterizzano Paesi e aree geografiche e che ovviamente continueranno a viaggiare. Non possiamo immaginare di produrre nei prossimi anni il caffè in Italia. Ma il messaggio principale che oggi dobbiamo lanciare è un altro: occorre puntare sull’agroecologia come chiave per una sostenibilità ambientale, economica e sociale”.