L’espansione del modello industrializzato di agricoltura e allevamento minaccia l’86% delle specie a rischio di estinzione, 24.000 su 28.000
Negli ultimi 50 anni la conversione di ecosistemi naturali alla produzione alimentare o al pascolo è stata la causa principale di perdita di biodiversità. L’agricoltura da sola minaccia l’86% delle specie a rischio di estinzione, 24.000 su 28.000. E’ uno dei dati drammatici contenuti nel rapporto elaborato dal think tank britannico Chatham House in collaborazione con Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente) e Compassion in World Farming.
“La più grande minaccia alla biodiversità deriva dall’uso intensivo del suolo – la conversione di habitat naturali in terre da coltivare o su cui allevare intensivamente – e questo è dovuto alla domanda di cibo sempre più ricco di calorie, ma povero dal punto di vista nutrizionale. Questi prodotti sono alla base di un sistema alimentare dispendioso che non riesce a nutrirci, mina la biodiversità e porta al cambiamento climatico”, ha affermato durante il webinar di presentazione del rapporto Tim Benton, direttore della Chatham House.
Negli ultimi decenni è stato seguito il “paradigma del cibo più economico” – si legge nel report – con l’obiettivo di produrre più cibo a costi inferiori attraverso l’aumento di input come fertilizzanti, pesticidi, energia, connotato da forti consumi di acqua ed energia e basato su pratiche come la monocoltura.
“Questo ha portato all’instaurarsi di un circolo vizioso in cui l’agricoltura per tenere il passo va verso una produzione sempre più intensiva che oltre a distruggere i suoli riducendone la capacità produttiva, occupa sempre maggiori superfici distruggendo ecosistemi naturali”, ha affermato Susan Gardner, Director – Ecosystems Division di Unep.
Attualmente, la coltivazione di cereali e l’allevamento occupano complessivamente 51 milioni di chilometri quadrati, quasi il 50% del suolo terrestre non desertico. Di questi circa 40 milioni sono destinati al pascolo o alla produzione di mangimi per animali. Una superficie enorme utilizzata per produrre carne e derivati che però rappresentano solo il 18% delle calorie consumate dalla popolazione del pianeta.
A fare le spese dei milioni di ettari distrutti e convertiti al pascolo o alle coltivazioni sono state migliaia di specie vegetali e animali. Hanno visto, infatti, la distruzione del loro habitat naturale e la fine delle possibilità di sopravvivenza. Dal 1970, il peso collettivo dei mammiferi selvatici è diminuito dell’82% e solo il 4% dei mammiferi oggi vive in ambienti selvatici.
L’unico modo per fermare la perdita di biodiversità è cambiare radicalmente il modo con cui viene prodotto e consumato il cibo. Così si costruisce un sistema agroalimentare più sostenibile e rispettoso degli ecosistemi naturali.
Alla luce di tutto ciò tre le azioni da intraprendere, secondo il Chatham, per contenere la pressioni sulle risorse naturali sono le seguenti.
Primo. Ridurre il consumo di carne e derivati animali e spostarsi verso diete meno impattanti per l’ambiente. Al tempo stesso è assolutamente necessario ridurre gli sprechi alimentari globali, pari a quasi un terzo della produzione di cibo.
Secondo. Proteggere le aree naturali evitando di convertire altre superfici alla coltivazione. Favorire invece il ripristino degli ecosistemi naturali. La protezione della terra dalla conversione o dallo sfruttamento è il modo più efficace per tutelare la biodiversità.
Terzo. Adottare pratiche agricole più rispettose della natura e che sostengano la biodiversità, limitino il ricorso a sostanze chimiche e sintetiche, utilizzino tecniche sostenibili per gestire la fertilità del suolo e controllare le malattie.