In tutte le società avanzate, la conoscenza scientifica gioca un ruolo cruciale nel plasmare l’immagine del mondo e la cultura diffusa. Tuttavia, se fino a qualche decennio fa il quadro valoriale in cui si iscrivevano i prodotti della scienza e della tecnologia era evidente, oggi questo quadro è molto più equivoco e confuso.
di Carlo Modonesi, ISDE Italia
In molti settori, la scienza si sta trasformando sempre più in tecno-scienza e la differenza tra scienza e tecnologia è ormai difficile da individuare. Un passaggio importante di questa complessa trasformazione dell’impresa scientifica si è verificato quando la scienza, da pratica artigianale su piccola scala basata sul lavoro di piccoli gruppi di ricerca uniti da obiettivi condivisi, si è trasformata in una pratica industriale di larga scala – la cosiddetta big science – portata avanti da grandi aggregati di ricercatori consorziati in vere e proprie gilde accademiche. Il più delle volte, i ricercatori sparsi per il mondo che lavorano in questi grandi team non si sono mai conosciuti di persona, interagiscono tra loro in teleconferenza e pubblicano i loro report collettanei grazie ai moderni sistemi di scambio telematico in tempo reale di documenti digitali.
È in questo contesto che si colloca la big science del terzo millennio, sfornando due milioni di articoli l’anno pubblicati su oltre 30.000 riviste scientifiche diverse. Tutti elementi che danno l’idea delle proporzioni della macchina scientifica contemporanea, ma anche delle non poche criticità del suo funzionamento, a partire dal modo in cui vengono costruite le carriere degli scienziati, cioè sulla base della “quantità” di studi scientifici pubblicati nella letteratura ufficiale. Infatti, grazie al numero di pubblicazioni effettuate e di citazioni ricevute – un dato di mera natura bibliometrica detto impact factor – lo scienziato arriva a occupare posizioni di alto livello non solo nelle strutture universitarie e negli enti di ricerca, ma anche nelle società onorifiche, nei panel tecnici delle agenzie internazionali e in altri organismi di prestigio in cui spesso si concentra un potere non indifferente. Una tale concezione dell’impresa scientifica ha spinto molti autori a coniare il triste adagio “publish or perish” (pubblica più che puoi o sei finito). Nel corso di questa metamorfosi, ciò che si è smarrito è anzitutto il carattere originale della scienza, che ha determinato un’inevitabile perdita di fiducia nel sapere scientifico da parte di una quota considerevole del mondo sociale. La storia, tuttavia, ci insegna che, nel lungo periodo, è la qualità intrinseca di un’ipotesi o di una teoria scientifica che può decretarne il vero “successo” (in termini scientifici) e non il marketing dell’impact factor.
Un problema molto serio collegato al ragionamento delineato sopra riguarda il fatto che la formazione di gilde accademiche che si auto-sostengono e che si attribuiscono vicendevolmente credito scientifico attraverso il meccanismo delle citazioni incrociate può facilmente condizionare l’allocazione degli stanziamenti per la ricerca: un tema, questo, di rilevanza indiscutibile in quest’epoca difficile, in cui la ricerca di base è in grande sofferenza anche per la sfida impari che deve ingaggiare con la ricerca maggiormente orientata alla produzione di beni commerciali; si pensi solo alla sperequazione esistente tra le risorse disponibili per la ricerca (privata) utile a produrre nuovi pesticidi e la ricerca (pubblica) per lo studio dei loro effetti sulla salute umana e sull’ambiente.
Molti scienziati sostenitori della big science affermano che la ricerca deve procedere con i tempi dell’economia e della finanza, e che la significatività statistica è sufficiente a provare la bontà di un risultato scientifico. Ma in realtà le cose non stanno esattamente così. La statistica è senza dubbio uno strumento fondamentale della ricerca scientifica, ma il sapere scientifico si consolida “lentamente”, “nel tempo”, attraverso il confronto trasparente, la verifica (falsificazione) continua e la riproducibilità dei risultati. Il problema è che le espressioni “lentamente” e “nel tempo” godono di scarso consenso nella tecno-scienza del terzo millennio. Se da uno studio scientifico non emergono prove in merito a un ipotetico rischio ancora poco indagato, nel sistema attuale si usa la formula assertiva secondo cui “vi è evidenza scientifica di assenza di rischio”: una conclusione assurda e azzardata, perché non ammette il dubbio (un unico studio scientifico su un certo rischio può dare un’indicazione di massima per ulteriori ricerche, ma non può concludere alcunché). Nella ricerca su quei moltissimi pesticidi di cui sappiamo ancora troppo poco, si arriva spesso a conclusioni di questo tipo, senza verificare se gli assunti di partenza degli studi sono realistici, se i protocolli sperimentali sono appropriati, se le misurazioni e i calcoli sono corretti, se i metodi statistici sono adeguati (ecc.). La big science non ha tempo per fermarsi a riflettere, e tende a trascurare completamente il problema dell’incertezza, soprattutto sulle questioni di interesse scientifico che hanno prodotto risultati contraddittori. Ma questo ha poco a che fare con la scienza vera, che, nei casi di incertezza scientifica dovrebbe limitarsi a concludere ciò che può concludere sulla base della valutazione oggettiva dei dati disponibili.
Su questa linea di confine – va detto in modo molto chiaro – la scienza dovrebbe fermarsi e lasciare campo libero alla decisione politica. Laddove l’incertezza scientifica è conclamata, dopo avere compreso il quadro dei problemi, il decisore ha il compito di operare sempre sulla spinta del buon senso, della responsabilità e dell’interesse pubblico. Il che significa incorporare l’incertezza nella decisione politica e attenersi a criteri di cautela. Vale a dire applicare il principio di precauzione.
Il commento di Carlo Modonesi è riportato anche nel Rapporto Cambia la Terra 2018.