Al vertice Unesco passa la candidatura di Ivrea, bloccata quella del territorio veneto. Nelle motivazioni ufficiali si parla di incompletezza della documentazione presentata. Ma l’eccessivo uso di pesticidi mina l’immagine dell’area. Il biologo Silvio Greco: “Restituire spazio alla biodiversità e agli insetti impollinatori”
di Carlo Luciano
Ha vinto la guerra contro lo champagne, perderà quella con l’ambiente? Il prosecco sta conoscendo una lunga stagione di successi: batte un record dopo l’altro, porta le bollicine italiane in trionfo nel mondo, fa schizzare in alto la lancetta dell’export. Il malessere ambientale al momento è una debole nota stonata, coperta dagli applausi del mercato. Eppure un primo colpo di freno è arrivato: la candidatura del re dell’export vinicolo nel Registro del Patrimonio del Patrimonio mondiale dell’Umanità è stata respinta nella riunione che si è appena conclusa in Bahrein.
La promozione di Ivrea a icona mondiale della cultura è passata, quella del prosecco no. Nelle motivazioni ufficiali si parla di incompletezza della documentazione presentata e il ministero dei Beni culturali minimizza affermando che l’Unesco ha rinviato «affinché l’Italia possa rappresentare al meglio le caratteristiche di questo patrimonio e completare il processo di attuazione delle specifiche misure di tutela, già avviato con la candidatura». E’ molto probabile dunque che il territorio veneto venga riproposto alla prossima riunione Unesco e l’esito della consultazione potrebbe cambiare.
Tuttavia questa battuta d’arresto è indice di un malessere che corre sottotraccia. E i commenti del Pd veneto, che ha attaccato la Regione invitandola a “incentivare una vera riconversione riducendo drasticamente l’uso di sostanze chimiche dannose per l’ambiente e per la salute”, sottolineano la scelta che il prosecco si trova di fronte: far finta di niente e ignorare i danni ambientali che già si manifestano, o cambiar rotta e rendere la produzione sostenibile, cioè capace di durare a lungo.
“Quella del prosecco è una storia esemplare perché evidenzia i danni della monocoltura”, commenta Silvio Greco, il biologo che divide il suo tempo tra la Stazione zoologica Anton Dohrn di Napoli e l’Università delle scienze gastronomiche dello Slow Food a Pollenzo. “Mantenere quella concentrazione produttiva in un territorio ristretto significa creare, nel lungo periodo, un grave danno per gli ecosistemi. L’intensità dell’uso di pesticidi e l’eliminazione degli spazi necessari agli impollinatori impoverisce il terreno e crea uno squilibrio profondo degli ecosistemi. E’ lo stesso problema che si sta creando dove i noccioleti diventano monocoltura: la biodiversità sparisce, il consumo di acqua cresce, le falde idriche s’inquinano”.
Secondo Greco il rimedio consiste nel diminuire drasticamente la dose di pesticidi e nel lasciare spazio alle siepi e ai fiori per consentire alle api e agli insetti pronubi di fare il loro lavoro di impollinazione. E’ la scelta dei viticoltori della triple A (agricoltori, artigiani, artisti) che lottano contro la standardizzazione dei vini e si oppongono all’uso eccessivo della chimica in cantina che può rendere simili in modo imbarazzante un vino siciliano e uno veneto prodotti dallo stesso enologo.
In questo contesto, con la corsa del vino italiano che risulta vincente ma in alcuni casi poggia su basi precarie, si inserisce il cambiamento climatico. Con una concentrazione di CO2 in atmosfera che ha raggiunto le 410 parti per milione (erano 280 all’inizio dell’era industriale) si rischia di andare verso uno scenario in cui in Piemonte si farà l’olio e in Sicilia i datteri.
“Il cambiamento climatico sta cambiando la biogeochimica del terreno”, spiega il climatologo Vincenzo Ferrara, che a fine mese interverrà su questi temi al Caffeina Festival di Viterbo. “Cambia la composizione dei microrganismi, cambia la biodiversità, cambiano componenti fondamentali della struttura del suolo. E dunque i raccolti, i frutti, il vino non possono essere uguali a prima: l’aspetto organolettico muta”.
Si modifica anche la vinificazione, a meno che non venga effettuata in un ambiente completamente controllato, ma in quel caso i costi salgono. “L’unica possibilità per mantenere le colture precedenti è spostarle: per ogni grado di temperatura in più bisogna salire di circa 150 – 200 metri l’alto oppure spostarsi di 200 – 250 chilometri verso Nord. E infatti alcune grandi aziende del settore stanno acquisendo nuovi terreni”, aggiunge Ferrara. In questa situazione di instabilità l’abuso di chimica di sintesi può costituire l’elemento che accelera in modo drammatico l’impoverimento dell’ecosistema, mentre lasciare spazio alla biodiversità e a tecniche di coltura a basso impatto ambientale aiuta la resistenza al cambiamento climatico.