Tempi duri per le grandi multinazionali del settore pesticidi. I cittadini sono sempre meno fiduciosi nei confronti della chimica nei campi. E le aziende cercano di correre ai ripari, almeno dal punto di vista dell’immagine.
di Roberto Giovannini
Sono tempi difficili per le grandi multinazionali del settore semi e pesticidi. Le promesse di profitti incommensurabili non sono state mantenute. La convinzione di poter diffondere senza difficoltà tra i coltivatori del mondo ricco come dei paesi in via di sviluppo i loro prodotti – l’apparentemente imbattibile combinazione di semi geneticamente modificati, fertilizzanti e pesticidi mirati – ha dovuto fare i conti con una generalizzata resistenza da parte degli agricoltori, dei consumatori, e infine degli Stati. Di qui il delicato processo di riorganizzazione dell’industria, con megafusioni tentate o ancora in corso. Di qui, anche, il tentativo a volte molto sofisticato di reagire alla pessima immagine globale che – volente o nolente – marchi come Monsanto, Syngenta, DuPont, Bayer e compagnia portano con sé. Qualcuno potrebbe definirlo semplice e tradizionale greenwashing, ma in realtà si tratta di una serie di azioni ad ampio raggio e progettate con creatività.
La compagnia che probabilmente si è più di altre spinta su questo terreno è Syngenta, la compagnia basata in Svizzera nata dalla fusione tra Novartis e Zeneca, e che proprio nel corso di quest’anno è stata rilevata per 43 miliardi di dollari da ChemChina. Già quattro anni fa Syngenta ha lanciato l’ambizioso progetto chiamato The Good Growth Plan – Gli impegni concreti per il futuro dell’agricoltura, contenente una serie di “impegni globali” che l’azienda “intende assumere per un’agricoltura sostenibile” entro il 2020. L’obiettivo dichiarato è quello di tratta di “potenziare l’efficienza delle risorse naturali, rinvigorire gli ecosistemi e la biodiversità e rafforzare le comunità rurali”.
Il progetto – pubblicizzato attraverso il sito www.goodgrowthplan.com – parte proprio dalla constatazione che esistono “pareri contrastanti della società su agricoltura e produzione alimentare”, ovvero (scrive la ricerca “The Agricultural Disconnect”) la contrarietà di massa su agrofarmaci, fertilizzanti e OGM, la preferenza per agricoltura biologica, locale, e la necessità di alimentare una popolazione crescente. Gli obiettivi sulla carta sono quantificati in termini generici – ad esempio, si parla di aumentare la biodiversità su 5 milioni di ettari di terreni coltivati, che poi non sono certo molti, mentre gli altri obiettivi sostanzialmente riguardano l’uso più efficiente e sicuro dei semi e degli agrofarmaci Syngenta – ma è difficile capire cosa in concreto sia stato davvero fatto, a leggere i numeri.
Che si tratti di una operazione poco incisiva ed esclusivamente di immagine lo si capisce dalle iniziative condotte nel nostro paese. A parte il finanziamento di iniziative come la mostra fotografica “Scarsità e Spreco”, in collaborazione con Eataly di Farinetti, Syngenta ha lanciato la cosiddetta “Operation Pollinator”, un progetto per incrementare la biodiversità e aumentare la popolazione degli insetti impollinatori, di mammiferi e uccelli sfruttando le aree marginali delle aziende agricole come i bordi campo. In altre parole, mentre i campi coltivati sono totalmente monoessenza, oltre che abbondantemente innaffiati di pesticidi, le aree vicine vengono piantate con essenze quali erba medica, ginestrino, lupinella, sulla e trifoglio. A nostra conoscenza, l’unico caso in cui “Operation Pollinator” sia stata attuata è un terreno di 160 ettari del Centro di ricerca per la patologia vegetale a Monterotondo, in provincia di Roma, nel quadro di un progetto gestito in collaborazione con l’Università di Perugia.