La grande guerra non è stata solo un massacro che ha ucciso o mutilato decine di milioni di persone. Ha anche contribuito a cambiare in profondità il rapporto tra tecnologia e natura: ha affilato un’arma chimica che, dopo essere stata sperimentata con successo nelle trincee, è stata riadattata per i tempi di pace. I gas nervini hanno generato i pesticidi
di Antonio Cianciullo
Siamo quasi al centenario della fine della prima guerra mondiale e quei quattro anni drammatici, con tutti i saggi e gli articoli usciti in occasione dei cento anni dall’inizio del conflitto, sembrano essere stati raccontati da tutti i punti di vista. Eppure, a ben vedere, ne manca uno. E non secondario. La grande guerra non è stata solo un massacro che ha ucciso o mutilato decine di milioni di persone. Ha anche contribuito a cambiare in profondità il rapporto tra tecnologia e natura: ha affilato un’arma chimica che, dopo essere stata sperimentata con successo nelle trincee, è stata riadattata per i tempi di pace. La straordinaria capacità aggressiva di questo nuovo strumento si è spostata dai campi di battaglia a quelli agricoli. I gas nervini hanno generato i pesticidi.
Questo connubio tra chimica del settore agricolo e chimica bellica è ben sintetizzato da un grande divulgatore delle insidie celate nel nostro rapporto con la natura, Michael Pollan. In Il dilemma dell’onnivoro Pollan estrae la figura di Fritz Haber dall’oblio in cui era caduta. Si tratta di un personaggio poco noto, nonostante abbia ricevuto il Nobel nel 1929 per “avere migliorato gli standard dell’agricoltura e aumentato il benessere dell’umanità”, anche perché la sua figura è imbarazzante.
Da un lato Haber è stato un genio capace di rubare alle leguminose un segreto fondamentale, la capacità di fissare l’azoto, elemento molto abbondante in natura ma con forte tendenza isolazionista. E’ stata un’innovazione che ha consegnato alla specie umana un potere formidabile: “L’azoto è fondamentale nei cicli biologici, perché è il mattone con cui in natura si costruiscono aminoacidi, proteine e acidi nucleici. L’informazione genetica che dirige e fa replicare i viventi è scritta con questo elemento”, scrive Pollan. Il chimico tedesco ha dunque creato la possibilità di modificare gli equilibri della vita e, qualche anno dopo, ha aggiunto al pacchetto delle nuove manipolazioni possibili gli insetticidi.
Dall’altro lato questo chimico tedesco, considerato da alcuni un benemerito dell’agricoltura, fu anche l’uomo che nella prima guerra mondiale, quando la Gran Bretagna bloccò i rifornimenti di nitrati dal Cile, li sostituì con i composti azotati di sintesi che assolsero magistralmente al loro compito formando esplosivi, la merce all’epoca più richiesta. Non pago, Haber diede anche un importante contributo alla creazione di un arsenale di gas tossici e per questi suoi meriti ottenne il grado di capitano che utilizzò per comandare il primo attacco con i gas della storia. Una decisione non apprezzata dalla moglie che, essendo anche lei chimico e potendo giudicare in modo affettivo e tecnico il lavoro del marito, ne accolse il ritorno a casa uccidendosi con la sua pistola di ordinanza.
Un episodio che non indusse Haber a imprimere un indirizzo diverso alle sue capacità. Anzi, approfittò della pausa tra le due guerre per mettere a punto un processo di sintesi dell’acido cianidrico, che poi ottenne il nome commerciale Zyklon B: in origine era destinato a sterminare i pidocchi, i nazisti lo utilizzarono nei campi di concentramento. Epilogo che il chimico-combattente non fu in grado di vedere perché morì nel 1934, in esilio – nonostante il valido contributo dato agli eserciti tedeschi – perché la conversione al cristianesimo non gli valse il perdono delle origini ebraiche.
Insomma, un nome scomodo nell’albo dei Nobel. E le scarse biografie liquidano il problema con la contrapposizione tra il benefattore dell’agricoltura e il chimico guerrafondaio. Ma è proprio questa contrapposizione che viene liquidata da Pollan come fondamentalmente falsa perché non coglie l’ambiguità e i rischi legati agli apparenti vantaggi forniti dall’ingresso prepotente della chimica di sintesi in agricoltura: “Quando l’uomo ha acquisito la capacità di fissare l’azoto, la fertilità del suolo ha cessato di dipendere esclusivamente dall’energia solare ed è entrata nell’orbita dei combustibili fossili. Il processo Haber-Bosch, infatti, prevede che azoto e idrogeno vengano fatti reagire, alla presenza di un catalizzatore, a temperatura e pressione colossali. Queste si raggiungono grazie a enormi consumi di energia elettrica”.
La via dell’uso intensivo dei fertilizzanti di sintesi porta dunque l’agricoltura a intrecciare la sua strada con il dibattito sul caos climatico e sulla necessità di diminuire l’apporto del cibo al rischio di devastazione climatica (calcolando anche gli effetti del cambiamento di uso dei suoli, l’utilizzo delle macchine agricole e l’uso dei composti azotati, il sistema agricolo finisce per pesare per un terzo del totale dei gas serra).
La via dell’uso massiccio dei moderni pesticidi porta su una strada ancora più ambigua perché la linea di separazione tra beneficio e danno è ancora più sottile. Modalità e tempi di uso dei pesticidi dovrebbero assicurare loro la capacità di uccidere in maniera estremamente selettiva, colpendo gli insetti e scansando gli umani. Ma il confine è fragile e l’esempio della più massiccia sperimentazione bellica dell’uso di diserbanti prova che queste sostanze viaggiano nel tempo seminando vittime.
In Month of pure light la ricercatrice Elisabeth Kemf documenta l’impatto in Vietnam dell’agente orange, un defoliante molto potente utilizzato dagli statunitensi per “pulire” la foresta in cui si nascondevano i guerriglieri e per minare le loro risorse alimentari. Tra il 1961 e il 1971, secondo gli Usa, il 12 per cento delle foreste è stato irrorato con diserbanti, secondo il Vietnam si tratta del 44 per cento. A prescindere dalle percentuali, il risultato immediato fu creare un discreto numero di casi di cancro tra gli stessi soldati americani e di moltiplicare per 9 il livello delle gravidanze anomale. Quello più lento è visibile ancora oggi nel corpo dei sopravvissuti.
Leggi anche il commento all’articolo di Giorgio Nebbia